Gianni Brera lo battezzò l’Abatino e da quel momento egli assunse questo soprannome che lo accompagnò per tutta la sua carriera, la storia di una mezzala milanista riassunta in qualche riga
Lui lo chiamò l’Abatino. Lui era Gianni Brera, l’Abatino era Gianni Rivera. Lui era giornalista sportivo d’eccellenza, Rivera giocatore di grande talento all’inizio della carriera. Gianni e Gianni. Uno scriveva e fumava la pipa. L’altro giocava a calcio, mezzala, nel Milan. Scorrevano immagini in biancoenero: erano gli anni a cavallo fra il decennio 60 e quello 70. L’Abatino. Soprannome che rimase incollato al Gianni rossonero per molto tempo. L’Abatino, piccolo abate, a sottolineare l’atteggiamento sempre “senza peccato” del Rivera fuoricampo e la pochezza fisica del Rivera in campo. L’Abatino: termine settecentesco, riferito a uomo fragile ed elegante, così dotato di stile da apparire manierato e, qualche volta, finto. Purtroppo per il Gianni Brera e per fortuna del Gianni Rivera, la mezzala del Milan vinse, in carriera, qualcosa come: pallone d’oro nel 1969, tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe delle Coppe e una Coppa Intercontinentale. Abatino sì, ma vincente. E alla grande.
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