Oetztaler Radmarathon: “vi racconto l’ultima grande follia della mia vita” [FOTO]

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Valerio Capsoni racconta la sua ultima follia realizzata all’Oetztaler Radmarathon

di Valerio Capsoni

Molti pedalano. Pochi poi raccontano. E’ tempo di Oetztaler Radmarathon. Non era il mio sogno, poi lo è diventato. Stava per trasformarsi in un incubo, ma poi il sogno si è avverato. Non lo farò mai più, ma era una cosa che dovevo a me stesso. Una persona normale può fare cose straordinarie. Basta volerlo. E’ febbraio, e io ho già preparato il nostro viaggio sulle Dolomiti, dove avrei portato per la prima volta i Salitomani dell’Etna. All’improvviso mi arriva una proposta impossibile. Provare a partecipare alla Oetztaler Radmarathon, la terribile Granfondo che si corre in Austria, a Soelden, a fine agosto. Io dico che è una cosa al di sopra delle mie capacità, e lo penso ancora adesso, perché la Oetztaler è eccessiva in tutti i sensi: per i 238 chilometri di distanza da coprire, per i 5500 metri di dislivello da superare, per la bellezza dei posti da attraversare, e per il fatto che al traguardo, se ci arrivi, probabilmente hai perso almeno tre anni di vita. Tant’è, accetto. Quando mi si parla di Alpi si sfonda una porta aperta, quindi informo Silvia della proposta.

E lei, come sempre, mi è vicina in questa mia decisione. Il mio lavoro mi sacrifica al computer tutta la settimana, quindi l’unica cosa da poter fare è iniziare ad aumentare le distanze e i dislivelli il sabato, in modo tale da avvicinarmi all’estate come meglio posso. A maggio arriva la notizia. Sono stato sorteggiato. Io continuo ad allenarmi, accompagnato di volta in volta da tutti gli amici più cari che mi hanno sostenuto in questi mesi. E continuo a pensare che per me sia una cosa impossibile riuscire a terminare la Oetztaler. Faccio 200 chilometri o giù di lì ogni sabato, giro tutta la Sicilia orientale, porto a termine tappe bellissime con i Salitomani dell’Etna, ma ogni volta è una fatica incredibile, uno sforzo grandissimo. Tuttavia comincio a rendermi conto che, come già altre volte in passato, da qualche parte nella mia testa c’è quella vocina che dice “puoi farcela”. E allora arriva giugno, e partiamo per le Dolomiti, per trascorrere una settimana bellissima tra le montagne più belle del mondo. Giorni e giorni di salite, di fatica, di panorami meravigliosi, con gli amici più stretti, e con Silvia sempre al mio fianco. Torniamo in Sicilia, e continuo ad allenarmi. Ho tutti vicino, e l’incoraggiamento è continuo. Arriva agosto, scalo l’Etna ripetutamente, vado in Calabria sull’Aspromonte, conquisto tutte le montagne della Sicilia, da Messina a Ragusa, passando per Palermo. Ormai ci siamo. Lassù ad aspettare me e Silvia ci saranno gli amici tedeschi, nostri compagni in questa avventura.

Alle 14:00 del 23 agosto partiamo dunque dall’aeroporto di Catania, accompagnati da un gentilissimo Rosario, con la bici accuratamente depositata nella stiva, nella borsa che Alberto mi mette a disposizione ogni volta che parto per le Alpi. Con me ho la maglia della Fausto Coppi regalatami da Pierangelo, e la fondamentale mantellina che Angelo mi ha messo a disposizione. Già, perché il meteo per domenica prevede pioggia, e questa notizia è un macigno che si abbatte con violenza su di me. Ma confesso che l’idea di non prendere il via non mi sfiora nemmeno per un momento. Cambiamo aereo a Roma, e appena entrati il comandante, avvisato dal nostro Marco, appena sente la nostra richiesta di informazioni sulla bici alla hostess si affaccia dalla cabina e dice “Valerio? Tutto bene, la sua bici è stata imbarcata”. I potenti mezzi dei Salitomani hanno funzionato anche stavolta. Arriviamo a Venezia. Il tempo di prendere la macchina in affitto, e ci avviamo in direzione Verona, per poi imboccare una volta ancora la A22 del Brennero, che non è una semplice strada, ma la via che conduce a un sogno.

Nel frattempo inizia a piovere, e la temperatura crolla. L’attraversamento dell’Alto Adige di notte è molto suggestivo, e superiamo il Brennero, dopo aver telefonato ad Heiko, che ci aspetta a Soelden per darci la chiave del nostro appartamento. Fortunatamente smette di piovere. Arriviamo nella Oetztal illuminata da una splendida Luna, con montagne altissime che incombono su di noi. E’ mezzanotte quando in una deserta Soelden Heiko ci viene incontro per accompagnarci nel nostro appartamento, che divideremo con lui e con suo figlio. Andiamo a letto già stanchi, dopo un viaggio di 10 ore. Il salto nel buio è appena iniziato. Il mattino successivo, dopo un’abbondante colazione, vado insieme ad Heiko alla Freizeit Arena a ritirare il mio numero. Silvia ci raggiunge, e insieme anche a Sergio, altro amico di Palmi, andiamo a pranzare in un ristorante italiano, dove facciamo una scorpacciata di spaghetti.

Torniamo quindi in camera, dove troviamo Heiko che è appena ritornato da un giro in bici insieme a Daniel e Franco, il nostro amico che vive in Germania da una vita, fondandovi il Team Strassacker, e che ha coordinato la nostra permanenza a Soelden. Persona squisitissima, con cui spero di poter pedalare presto qui in Sicilia. Trascorriamo il pomeriggio tutti insieme, e a un certo punto per capirci arriviamo a parlare almeno in tre lingue diverse. Nel frattempo il cielo si copre, e inizia a piovere. Le parole più ricorrenti che si sentono nelle strade di Soelden sono “schlechtwetter“ e “regen”, brutto tempo e pioggia. Se anche i tedeschi sono preoccupati per l’indomani, c’è poco da stare allegri. Andiamo a letto presto, ma prima di mezzanotte non riesco a prendere sonno, mentre ogni tanto mi alzo per guardare fuori. Piove a dirotto. Mi sveglio alle 4:30, e nella sala colazione sono il primo a fare ingresso, mentre inizia la processione di “morgen” dei tedeschi che entrano con gli occhi gonfi e con l’aria spaesata. Molti di loro non prenderanno il via. Nemmeno Heiko, che dopo essersi seduto accanto a me mi mette una mano sulla spalla e mi dice “Valerio, be careful”. Dopodiché si offre di darmi i suoi guanti per la pesca subacquea, che mi permetteranno si sopravvivere. Torno in camera, e mi vesto mettendomi addosso tutto quello che mi sono portato dalla Sicilia, dopo essermi cosparso di crema riscaldante. Alle 6:00 guardo le previsioni meteo, che dicono che in mattinata dovrebbe smettere di piovere. Esco fuori, con Silvia accanto, riparandomi sotto il portico. Su 4000 iscritti 1000 non partono. Sento lo sparo che segna il via, e dopo 10 minuti, appena i caschi in fondo iniziano a muoversi, e i ciclisti davanti a me scorrono, entro in strada dopo un bacio a Silvia. Sono l’ultimo. Dietro di me ho solo le ambulanze e le macchine di servizio, e così sarà per tutta la gelida e infernale vallata fino a Oetz.

Attendo l’inizio del Kuthai ossessivamente, pensando che in salita la mia sofferenza verrà in parte alleviata. Nonostante le precauzioni l’acqua e il freddo sono già penetrati dappertutto. Non ho provato mai niente di simile in vita mia, e purtroppo il peggio deve ancora arrivare. Mi metto sul lato sinistro della strada, dove di tanto in tanto passano i mezzi dell’organizzazione. Parentesi: era tanto difficile scrivere sui pulmini “Autoscopa”? Evidentemente sì, visto che tutti riportavano la scritta “Audoscopa”. Visto che però ho la lucidità di notare questo insulto all’italiano, mi rinfranco un po’, perché nel frattempo, nonostante il 34×29 innestato, supero una grande quantità di ciclisti, la processione di spettri che mi accompagnerà per tutta la giornata. Il contachilometri è morto dopo 9 chilometri, quindi sono all’oscuro per quanto riguarda tutti i dati, affidandomi solo allo studio dell’altimetria e della planimetria che ho fatto a tavolino. Comunque ho stampato tutto in testa. Quello che però mi sorprende è la durezza del Kuthai, con rampe lunghe e dritte a risalire la stretta vallata dentro il bosco, alternate da tornanti altrettanto duri. E questa considerazione quantomeno mi distrae, e non mi fa pensare alla pioggia e al freddo che sto patendo. A un certo punto penso però con sgomento alla successiva discesa che mi attende, descrittami come molto veloce e pericolosa. Come potrò sopravvivere? Decido di non fermarmi in cima, e di tirare dritto, affidandomi nelle mani del destino. Perché non ritirarsi? Di fianco a me scorre la processione di coloro che abbandonano, girando la bici verso valle, tremanti e con lo sguardo spento, mentre i furgoni recuperano ciclisti sbandati sparsi per ogni dove.

E la processione continua. Ho preventivato di arrivare in cima verso le 9:30, e l’orologio, unica compagnia che mi rimane, mi dice che sono in orario. Ho spento anche il cardiofrequenzimetro, perché non voglio vedere niente. Davanti a me la visione ora si apre, e vedo soltanto vette innevate circondarmi in ogni dove, avvolte dalle nuvole, con la pioggia incessante che cade, cade, cade. In cima ci sono 2 gradi, e penso che non uscirò vivo da questo viaggio polare. Ma dentro di me ci sono le voci di tutti gli amici, c’è Silvia che mi incoraggia, c’è mia madre da lontano che prega per me, e mio padre da lassù che pedala con me. Inizio a piangere, ma mi rendo conto che è troppo presto per arrendersi, che in realtà non ho nessuna intenzione di arrendermi, che non sono venuto fin quassù per arrendermi, ma per fare qualcosa che dovevo a me stesso. E’ il naturale desiderio dell’uomo di avventurarsi nell’ignoto, nello sconosciuto, per trovare la verità attraverso la ricerca del proprio limite. Un filosofo scrittore appassionato di ciclismo aveva detto “cosa spinge un uomo che passa tutta la sua vita dietro la scrivania chiuso in un ufficio a farsi male e torturarsi in questa maniera in sella a una bicicletta?”. Io ho trovato la mia risposta. La ricerca di me stesso. E mi sono reso conto che sono più vicino alla mia verità solo su queste montagne, dove il silenzio che ti circonda è assordante, e se qualcosa dentro di te stride, non puoi nasconderti. Nessuno è giudice più terribile e severo. In discesa vado giù fortissimo, nonostante i freni tirati al massimo, mentre parte del mio corpo sta già perdendo sensibilità. Non sento più la mano sinistra.

Vorrei urlare, ma non riesco ad aprire la bocca. La vista mi trema e a stento vedo la strada. L’unica cosa che riesco a fare è dirigere la bici dove c’è l’asfalto. Finalmente la discesa termina, e nei rettilinei che mi portano verso Innsbruck vedo una cosa rotonda e luminosa davanti a me in mezzo alle nuvole. Il sole. Non posso crederci, forse l’incubo sta per finire. E così è. La pioggia smette di cadere all’attacco del Brennero, e da lì per me inizia un’altra giornata. Mi fermo, tolgo la mantellina, mangio, e riparto, mentre gruppi di fantasmi continuano a superarmi. Ma non me ne importa assolutamente nulla. A bordo strada la gente mi incita, ha un applauso di incoraggiamento per tutti, e sarà così per tutto il percorso. Una cosa commovente. Io ringrazio tutti con un gesto della mano e con un sorriso. Improvvisamente mi sento bene, come se d’incanto tutta la sofferenza patita non fosse mai esistita. Metto un rapporto lungo e mi alzo sui pedali. La seconda metà del Brennero sarà il mio momento migliore di tutto il giorno. Nel frattempo inizio anche a scattare delle foto, ma la macchina fotografica è andata, con l’obiettivo totalmente annacquato. Rientro in Italia, e proprio al confine è posto il rifornimento. Mi fermo, mangio e bevo, mando un messaggio a Silvia per rassicurarla, anche se lei, come Angelo, riceve gli Sms che aggiornano in tempo reale sui miei transiti in cima ai passi. Scendo velocemente a Vipiteno, dove arrivo all’ora di pranzo, e penso che sono oltre metà strada. Ma ancora la vera Oetztaler deve iniziare. Quello che ho fatto finora è l’antipasto dell’antipasto. Attacco il Giovo, continuo a mangiare, telefono ad Angelo, a Gianni, a mia madre, per non pensare alle pendenze al 10% che sto superando, e ai 20 chilometri di salita che ancora mi mancano. Provo a scattare altre foto, parlo con chi mi capita accanto.

Un tedesco mi dice “if you still have the strength to speak, you’re not too bad”. Esco dall’interminabile bosco che mi ha circondato finora, e la crudezza del Giovo mi si manifesta in tutta la sua magnificenza davanti. Vette immani mi circondano, e vedo la neve che cade verso il Rombo, dove il cielo si sta richiudendo e minaccia nuovamente un clima da incubo. Mi fermo al ristoro posto poche centinaia di metri prima del passo, dove scollino oltre i 2000 metri poco prima delle 15:00. Mantellina, e giù in picchiata su una discesa assolutamente spettacolare, dove riesco a disegnare traiettorie degne di Angelo, scendendo a velocità pazzesca, nonostante il forte vento che si è alzato. Arrivo a San Leonardo in Passiria, ricordandomi il passaggio di quattro anni prima con Alberto, ma questa volta è completamente diverso. Ho nelle gambe 180 chilometri, 3500 metri di dislivello, 8 ore e 30 minuti in sella, dopo essere passato attraverso un incubo. Ecco, qui finisce l’antipasto dell’antipasto, e comincia la vera Oetztaler. Quello che non ti ha prostrato prima, non è niente rispetto a quello che ti aspetta. Il Rombo esige il suo tributo. Non è un’esperienza attraverso la quale puoi passare indenne, perché in qualche modo ti segna, nel bene e nel male. Puoi finire seduto ai piedi di un muretto in lacrime, mentre ti tolgono il numero dalla bici, o uscirne devastato psicologicamente. Ma a questo punto niente e nessuno può più fermarmi, perché l’unico che comanda sono io, e la mia mente ordina al corpo di andare avanti. E così accade. Procedo, come la formichina evocata da Silvia nel suo messaggio all’inizio della salita. E’ una rampa continua che mi porta verso il cielo, mentre la processione di spettri continua a passarmi vicino, la testa bassa, lo sguardo spento. Conto i metri che mi separano dal falsopiano a metà salita, dove mi attende l’ultimo rifornimento.

Il falsopiano arriva, e con esso la sosta, dove aiuto un austriaco a scendere dalla bici. Non si regge in piedi. Gli do una pacca sulla spalla, e riparto. Sopra di me ho la porta dell’inferno, o del paradiso, a seconda dei punti di vista. La scalinata finale del Rombo, che porta dritto in cielo, in un’altra dimensione. Da quel momento è una catarsi. Davanti a me ho il ghiacciaio immerso nelle nuvole, e sento delle voci che hanno la forza di riconoscere la mia divisa, e di chiedermi cosa ci faccio lassù fin dalla Sicilia. Rispondo con un sorriso, mentre supero tornante dopo tornante la mia via crucis, con le gambe che non rispondono più, le mani che mi fanno male, la schiena dolorante. Ma la testa ha preso il controllo di tutto. Nemmeno un cataclisma può più fermarmi. Le montagne mi ghignano da tutte le parti, e io rispondo con uno sguardo di sfida. Non mi avrete. Io sono più forte, e vi dominerò anche stavolta. Finalmente arriva il tunnel, e con esso la fine delle pendenze mortali, e mentre avanzo nel buio verso la luce in fondo, sento scorrere qualcosa lungo le gote. Mi rendo conto che sono lacrime. All’uscita mi ritrovo in mezzo a un gruppetto, che pedala accanto e dietro di me. Do una pacca sulla spalla al tedesco sulla mia sinistra, mi giro e dico “hey guys, you are all champions”.

“You too” mi risponde una voce. E così inizia la discesa, gelida, in mezzo alla neve, ma ormai non sento più nulla, neanche la contropendenza a metà, perché la mia testa è già a Soelden, dove sto per arrivare, con le ombre della sera già alte, e le luci dei lampioni accese. Il rettilineo finale, le persone a bordo strada che mi incitano, curva a destra, ponte, vedo il traguardo, apro la mantellina, con le dita indico la maglia dei Salitomani dell’Etna, e taglio lo striscione con le braccia al cielo. Ho vinto. Silvia è lì ad aspettarmi, e io la abbraccio esplodendo in un pianto liberatorio. L’ultima volta nella mia vita col numero dietro la schiena, nella prova più dura. Una persona normale può fare cose straordinarie. Basta volerlo”

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