“Mi mancava il respiro”, la confessione di Prandelli: perchè ha smesso di allenare

Cesare Prandelli racconta perchè ha deciso di smettere di allenare: il disagio nel calcio, le difficoltà della pandemia e non solo

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L’ultima Italia che ha giocato i Mondiali, ormai nel 2014, era allenata da Cesare Prandelli. Sembra un secolo fa, non è passato nemmeno un decennio. Oggi dell’allenatore di Orzinuovi si sono perse le tracce. A dirla tutta non andrebbe neanche più definito ‘allenatore’, con il mestiere ha smesso. Lo racconta in una bella intervista rilasciata a Walter Veltroni per “Il Corriere dello Sport”.

Che fine ha fatto Prandelli?

Sto bene. Avevo bisogno di staccare da quella vita frenetica, un po’ schizofrenica. È stato un momento stregato: gli stadi vuoti, una sensazione di solitudine che mi avvolgeva. Era tutto vuoto, tutto rimbombava troppo. Dovevo mettere un muro tra me e quel silenzio. Ora sto molto bene, seguo sempre il calcio, con passione. Ma non ho pensato neanche per un secondo di tornare ad allenare. Basta, fine“. Chiaro riferimento agli anni della pandemia, una parentesi atipica del mondo, non solo calcistico.

L’ultima panchina risale al 2021, il ritorno alla Fiorentina che lo aveva reso grande e gli aveva aperto le porte della Nazionale. Adesso niente più panchine, ma non è un addio al calcio. “Vorrei fare qualcosa ancora ma non l’allenatore. – confessa – Mi sono reso conto che ero arrivato: generazioni diverse, gestioni diverse, programmi diversi. Ho avuto la sensazione che qualsiasi cosa proponessi ricevevo parole brutte e stavo sul cavolo a tutti. Sono fuori tempo massimo, probabilmente. Capita“.

Sampdoria-Fiorentina, l’inizio di tutto

Tutto è iniziato nel febbraio 2021, durante un Sampdoria-Fiorentina. “Stavamo dominando la partita poi, verso il settantesimo, ha segnato Quagliarella per loro. – racconta – In quel momento ho provato una spaventosa sensazione di vuoto. Mi è mancato il respiro per dieci secondi. Credo di conoscere il sapore dell’adrenalina ma una esperienza così non l’avevo mai provata. Un vuoto nero, un gorgo di nulla. Forse il troppo amore per la Fiorentina, il desiderio di strafare, di portarla fuori dai guai. Ho parlato con le persone che sanno gestire queste situazioni di stress e mi hanno consigliato di staccare un po’. Mi hanno fatto questo esempio: è come un chirurgo che in sala operatoria interviene tutti i giorni ma arriva un familiare e lui si blocca. Il chirurgo non riuscirà più ad operare. Una sensazione così, di troppo affetto, di troppo amore, di troppa responsabilità mi ha tolto il respiro. Era il segnale“.

Il disagio e la lettera

In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono“. Con queste parole, contenute in una lettera, Prandelli ha annunciato il suo addio, mettendo a nudo la propria situazione di disagio.

Mi sono ammalato di troppo amore, non è retorica. – spiega – In quegli stadi vuoti in cui ogni cosa era, insieme, amplificata e silenziosa, avevo perso il riscontro diretto con le cose, sembrava una bolla marziana. E poi io voglio troppo bene alla Fiorentina, non posso vederla soffrire e tantomeno sentirmi responsabile di questa sofferenza. Mi sentivo come quando vedi tuo figlio che sta tentando una cosa e vorresti farla tu ma non sei in grado, perché non puoi farla. Questa è la sensazione che ho avuto. Vuoto e impotenza“.

Nuove generazioni

E poi le nuove generazioni… un modo totalmente diverso di intendere il calcio e “un modo completamente diverso di intendere il rapporto tra singolo e gruppo – sottolinea Prandelli – Il segreto del calcio è sempre stato quello di formare un gruppo, un gruppo che riesca ad avere lo stesso sentimento e lo stesso obiettivo. Probabilmente le nuove generazioni hanno un modo completamente diverso, non dico che è sbagliato. O ti adatti, ti adegui… Però io ho sempre lavorato basandomi sulle relazioni. Quando mancano l’allenare diventa solo un lavoro da calcolatore, freddo, in cui i dati sono preponderanti rispetto all’aspetto umano“.

In spogliatoio tutti con il telefono in mano. “La cosa imbarazzante è quando tu finisci l’allenamento, entri nello spogliatoio e tutti sono con il telefonino in mano. Non ci sono dieci minuti, un quarto d’ora in cui cerchi di analizzare, non so, la partita che hai perso, la situazione che non hai capito, tutto finisce lì. Magari sono molto più seri e professionisti rispetto a noi, ma hanno una concezione diversa del lavoro che deve essere accettata. È così, oggi“, aggiunge l’ex CT.

La decisione di smettere

Il momento di dire basta è apparso forte e chiaro. “L’ho capito la domenica mattina, la sera avremmo incontrato il Milan. – racconta PrandelliLa settimana prima avevamo giocato e vinto a Benevento. Dopo la partita ho detto ‘Sono stanco, sono vuoto’, pensavo fosse una situazione passeggera. Ma in settimana non era cambiato nulla, tutte le volte che arrivavo agli allenamenti avevo questo senso di disagio. La società mi è stata vicino, i collaboratori anche. Ero io che stavo male, nel profondo.

La domenica mattina abbiamo fatto come sempre un allenamento pre-gara. Al mattino, in palestra, c’è stata una situazione, nulla di che, una carenza di concentrazione. Di solito agivo in un certo modo e la superavo. Quel giorno ho fatto due passi e ho sentito ancora quel disagio, sempre più forte. Mi sono riseduto e ho detto basta, è la mia ultima partita in panchina“.

Eppure qualcosa del calcio ancora gli manca. “Da giocatore mi manca l’allegria del gioco, il divertimento di andare al campo, fare le partite e sfidare gli altri, senza nessun tipo di responsabilità se non quella di far parte di un gruppo. – ammette – Come allenatore mi mancano certi momenti in cui avverti che i giocatori ti ascoltano, ti seguono, stanno diventando una comunità, allegra e coesa. In quei momenti mi sentivo in pace con me stesso, mi sentivo molto felice di fare quel lavoro“.

La morte della moglie

Molto sentito il passaggio sulla scomparsa dell’amata moglie Manuela, uno di quei momenti in cui ha privilegiato la vita rispetto al pallone.

Mi sono sentito un privilegiato perché ho potuto scegliere. Tante persone hanno vissuto il mio stesso dramma e non avevano la stessa possibilità, dovevano continuare a lavorare dalla mattina alla sera. Avevamo fatto un patto, con Manuela: se avesse dovuto fare altre cure, più invasive, non l’avrei lasciata da sola. Ho fatto una cosa normale, ma forse oggi la normalità è un’eccezione“, conclude.

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