Acerbi a cuore aperto, le clamorose rivelazioni: “arrivavo in campo alticcio! Il cancro? Ringrazio il Signore per averlo avuto”

Un Acerbi inedito: il calciatore della Lazio si racconta, dai superalcolici al cancro, le rivelazioni di Francesco

SportFair

Un Francesco Acerbi come non lo abbiamo mai visto: il calciatore della Lazio si è raccontato in una profondissima intervista a L’Ultimo Uomo, rivelando dei lati della sua vecchia vita sconosciuti a molti.

acerbi
Giampiero Sposito/Getty Images

Io giocavo per mio padre. Ci teneva molto, forse troppo. Sicuramente più di me. Forse a volte puntava talmente tanto su di me che volendo farmi bene arrivava a farmi male. A farmi perdere la passione. Fatto sta che una volta che lui non c’è più stato io non avevo nessuno per cui giocare. Di certo non per me. Non avevo la testa da professionista. Non avevo rispetto per me, non avevo rispetto per il mio lavoro, non avevo rispetto per chi mi pagava. Spesso arrivavo al campo alticcio, senza aver recuperato dai superalcolici della sera prima. Mi andava bene perché fisicamente sono sempre stato forte. Mi bastava dormire qualche ora e poi in campo rendevo comunque. Le serate non sono sbagliate a prescindere, il problema è che allora io esageravo”, ha raccontato.

acerbi
Marco Rosi/Getty Images

La situazione una volta arrivato al Milan, nonostate la società gli avesse trovato un alloggio a Gallarate e non a Milano, proprio per contenere un po’ il suo stile di vita, non è cambiata: “io uscivo lo stesso. Non avevo paura della grande squadra, volevo solo divertirmi e giocare. Il numero 13 (ereditato da Nesta, ndr) non l’avevo scelto io. Era stato Galliani a dirmi che l’avrei dovuto prendere. A me faceva piacere ma non davo la giusta importanza a niente. Nemmeno ad essere al Milan, nemmeno al numero di maglia”.

Marco Rosi/Getty Images

E’ arrivato poi anche un momento in cui Acerbi ha pensato di smettere, quando è tornato al Chievo: “volevo smettere di giocare. Non mi interessava più, non trovavo più stimoli. Lo dicevo al telefono a mia madre quando ci sentivamo e lei poveretta non sapeva bene cosa dirmi. Lo dicevo anche a Paloschi, eravamo legati: Palo voglio smettere, non ce la faccio più. Dai Ace che cazzo dici? Tieni duro! mi rispondeva lui. Ero certo di essere forte. Di essere più forte di molti altri. Solo mi andava bene così e se non giocavo mi arrabbiavo con gli altri e mai con me stesso. Mandavo tutti a quel paese senza iniziare a curare ogni aspetto, la mia vita, tutti quei dettagli che fanno davvero la differenza”.

Marco Rosi/Getty Images

Non poteva mancare poi un commento sul cancro: “è stato la mia fortuna. Ringrazio il Signore per averlo avuto. Ho scoperto di essere ammalato a luglio del 2013, appena arrivato a Sassuolo. Operazione e dopo tre settimane ero di nuovo in campo. Non me ne sono nemmeno accorto e dunque non era cambiato niente. Continuavo a comportarmi da non professionista fuori dal campo. La ricaduta? Non volevo dargliela vinta, questo sì. Battevo i pugni sul tavolo, mi mettevo a gridare in casa da solo esci dal mio corpo, vai via! Però in sostanza continuavo a fare la vita di sempre. Le serate, le bevute. Reagivo così alla malattia, stando fuori fino alle 7 del mattino. Continuavo a chiedermi perché la malattia non mi stesse cambiando. Perché non avessi paura. Mi stupivo di restare sempre lo stesso. Poi forse qualcosa stava cambiando. La certezza l’ho avuta quando uscendo a cena col preparatore dei portieri del Sassuolo, la sera, sentivo il bisogno di bere poco alcol. Mi ricordo anche che facevo una cosa strana: ad ogni bicchiere di vino o birra facevo seguire un bicchiere d’acqua, come se sentissi di dovermi depurare. C’era anche chi mi stava attorno per secondi fini, facendomi del male. Ho capito che andava allontanato. Che dovevo tenere attorno a me solo chi mi voleva davvero bene

Marco Rosi/Getty Images

Nella mia testa questo non è il mio punto d’arrivo e l’Acerbi di oggi non è il miglior Acerbi possibile. Se così fosse vorrebbe dire sedersi. Non voglio avere nessun punto d’arrivo. Voglio solo pensare a migliorarmi, a ragionare giorno per giorno. Il mio punto d’arrivo sarà quando smetterò di giocare. Ora devo solo pensare a fare il meglio possibile in ogni minima cosa. Poi si vedrà alla fine. Alla fine della stagione, alla fine della carriera. A un anno dalla malattia mi è successa una cosa. Sono andato a dormire una sera come niente fosse, la mattina mi sono svegliato assalito dal terrore. Avevo paura della mia ombra. Pensavo alle preoccupazioni date ai miei, alle occasioni che avevo buttato all’aria, agli anni sprecati, alle serate di eccessi. Tutto assieme, tutto all’improvviso. Dovevo andare da un analista per superare le paure. Così ho iniziato un percorso che mi ha portato a migliorare come uomo. Limando gli aspetti del mio carattere che potevano farmi naufragare, sbloccando certi miei limiti. Adesso voglio tutto. Senza la malattia sarei finito a fare una carriera in Serie B, o magari avrei smesso. Per fortuna lassù qualcuno mi ha voluto bene e mi ha mandato la malattia. Senza sarei finito malissimo. Nessuno mi avrebbe salvato. Oggi sono soddisfatto della persona che sono diventato, nonostante tutti i miei difetti”, ha concluso.

Condividi