Paura di cadere? No, voglia di volare. L’High Diving, 90 km/h di pura follia

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Tecnica, disciplina e controllo del corpo, l’high diving come non l’avete mai visto: voli, rischi e quell’impossibilità di allenarsi…

“Lanciarsi nel vuoto è la mia passione: una droga che non fa male”. Parole e musica di Alessandro De Rose, l’unico tuffatore italiano che pratica l’high diving, propriamente i tuffi dalle grandi altezze. Sport che può essere catalogato tranquillamente tra quelli estremi, dove l’adrenalina cancella il rischio, l’eccitazione supera la paura. Provate a lanciarvi dalla testa del Cristo Redentore di Rio de Janeiro o dalla Torre di Londra, sarebbe come se vi lanciaste dalla stessa altezza da cui si lanciano gli atleti di high diving al mondiale di Kazan: 27 metri, un’eternità!

LaPresse/EFE
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Un volo della durata di 2,8 secondi che trasforma i tuffatori in proiettili che bucano l’acqua alla velocità di 90 chilometri l’ora. Ogni lancio ha una sua preparazione, ogni tuffo richiede attenzione e precisione: si cura lo stacco, la fase tecnica e, negli ultimi 10-15 metri, il controllo del corpo per entrare al meglio in acqua. L’impatto con la superficie della piscina o della zona marina in cui si pratica questa disciplina, è molto molto importante per evitare pericolosi infortuni. Intanto non bisogna mai “tirare le punte”. Motivo? Frattura assicurata di tutte le dita del piede, troppo fragili per reggere l’urto. “Non provate nemmeno ad entrare con i talloni – spiega Alessandro De Rose – perché in quel caso a saltare è la schiena”. Quindi il piede va messo a 45°così da bucare l’acqua e permettere a tutto il corpo di entrare senza danni. “Sempre, ovviamente, con il sedere un po’ all’infuori – continua De Rose –  perché altrimenti i danni sarebbero enormi. Per raggiungere la piattaforma non esistono ascensori. I protagonisti dell’high diving percorrono dieci piani di scale durante i quali annusano il vento e valutano la direzione in cui esso spira, poiché un alito in più o una folata improvvisa possono spostare la traiettoria o far perdere il controllo del corpo. Arrivati in cima, i tuffatori prima segnalano l’ok ai giudici e poi ai subacquei piazzati sotto la piattaforma. Quest’ultimi hanno due funzioni: eseguire eventuali operazioni di salvataggio e increspare l’acqua nella zona dove l’atleta si tufferà. Entrare in una superficie mossa riduce il rischio di danni alle articolazioni. Una volta sott’acqua, il tuffatore viene tenuto d’occhio dai sub, pronti ad intervenire in casi di emergenza.

Alberto Estevez/Lapresse
Alberto Estevez/Lapresse

Un’altra particolarità dell’high diving è la quasi totale mancanza di allenamenti. Questi si svolgono dalla piattaforma di 10 metri e il tuffo viene diviso in tre parti messe insieme poi solo al momento della gara. L’unico paese, che garantisce una struttura di questa altezza per potersi allenare, è l’Austria, ma senza esagerare: dai 3 ai 5 tuffi al giorno, tutti profumatamente pagati. La vertigine, canta Jovanotti, non è paura di cadere ma voglia di volare, e per questi ragazzi con le ali, librarsi in aria, non è mai stato così stupendo.

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