NBA, la storia che cambia “quel perdente di Michael Jordan”

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Le storie del sabato de ‘La Gazzetta dello Sport’: il protagonista questa volta è Michael Jordan

E’ una frase di uno spot Nike che ha contribuito a creare il mito, la leggenda del più grande cestista di sempre: “Nella mia carriera ho sbagliato più di novemila tiri. Ho perso quasi trecento partite. Trentasei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Nella vita ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”. Michael Jordan, bandiera dei Chicago Bulls, ha impiegato 4 mesi per arrivare all’All Star Game, una stagione per avere una linea di scarpe dedicata e poche settimane per riempire le arene quando arrivavano i suoi Bulls nelle arene più disparate degli States. Eppure il primo titolo arrivò dopo ben 7 anni di professionismo.

Tacciato come egoista, accusato di non essere abbastanza uomo-squadra, chiamato perdente e caricato di tutte le aspettativi possibili. Arriva ai Bulls nel 1994, dopo aver giocato per tre anni a North Carolina ed ivi trova una squadra mediocre, mai vincente, che raggiunge i playoff a stento dopo il suo arrivo. Durante la seconda stagione rimane a lungo fermo dopo essersi rotto un osso del piede sinistro ma scalpita, non riesce a star fermo, concorda un minutaggio limitato con lo staff tecnico ma non ce la fa ugualmente. I Bulls vincono 6 delle ultime 9 partite e arrivano ai playoff. Quando, al Boston Garden, riesce a mettere a segno 63 punti, Bird pronuncia la celebre frase “quello era Dio travestito da Jordan”. L’anno dopo, i Bulls non vincono nemmeno una gara di playoff ma Jordan è già sul tetto del ondo: guadagna molto ed è il giocatore più ammirato dell’NBA.

larrymichaelLa quarta stagione ai Bulls è segnata dalla nascita della grande rivalità coi Detroit Piston e dalla vittoria di almeno una serie dei playoff. I Detroit sono fortissimi, vantano tra le proprie file gente del calibro di Thomas, Joe Dumars e Adrian Dantley (che finiranno nella Hall of Fame), Dennis Rodman, Bill Laimbeer, John Salley e Vinnie Johnson. Le partite hanno fatto la storia e nascono le “Jordan Rules”: regole difensive che prevedono una marcatura asfissiante e aiuti costanti quando Jordan ha la palla. In tre chiudono la penetrazione e un quarto difende il ferro. Jordan è però sempre e comunque criticato, non la scarica mai nei momenti decisivi e questo contribuisce alle due eliminazioni di fila dei suoi Bulls, ‘guadagnandosi’ ancora una volta il titolo di ‘perdente’.

“Proviamo il triangolo, ma non funzionerà. Se vinciamo, tutto bene. Ma appena cominciamo a perdere, io tiro”. Questo è quello che disse al suo nuovo allenatore, Phil Jackson, nel 1989, quando spiegò la sua triangolazione offensiva. Quell’anno arrivano in finale a est contro i Pistons ma vengono eliminati in gara 7, tra la frustrazione di Jordan che distrugge una sedia nello spogliatoio. La stagione seguente Michael Jordan sembra un’altro, passa ai compagni, gioca per gli altri e non più solo per se stesso. La squadra di Chicago ritrova i Pistons in finale a Est e stavolta finisce 4-0. Ultimo step sono i Lakers di Magic Johnson: nessun problema. Arriva il primo titolo di una carriera straordinaria e di una serie di vittorie incredibili. Col senno di poi, dopo essersi ritirato Jordan disse: “Forse ho sbagliato, ma non ritirerò quello che ho detto finché tutti, giornalisti e commentatori, non si rimangeranno quello che hanno detto su di me”.

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