Rivali – Ben Johnson vs Carl Lewis: quel dito al cielo che sconfisse “il figlio del vento”

SportFair

La storia dei 100 metri piani di due duellanti così vicini così opposti da rendere spettacolare la finale delle Olimpiadi di Seul 1988

Si giocò tutto in una notte. O meglio: si giocarono tutto in una notte. E fu una notte imperdibile, indimenticabile. Per tutti quelli che la vissero. Era notte fonda, molto fonda, quando finalmente i due-llanti si presentarono sulla pista. L’attesa snervante e carica di enormi aspettative era finita. La gente, in Italia, aveva creato quelli che oggi si chiamano “gruppi di ascolto” per non perdersi nulla di questo importantissimo evento. Tutti davanti a uno schermo. Era il 24 settembre del 1988. Olimpiadi di Seul. Si correva la finale dei 100 metri di atletica leggera. I due velocisti che si contendevano lo scettro di “uomo più veloce del mondo” erano Ben Johnson e Carl Lewis.

Non avrebbero potuto essere più diversi l’uno dall’altro. Ben Johnson, Canada, piccolo e tozzo, un busto da scaricatore di elefanti vivi, due gambe corte ma così ripiene di muscoli da sembrare cannoni di pelle pronti a sparare proiettili di inaudita velocità. Carl Lewis, USA, bello, serio, posato, alto, vanitoso, gambe lunghissime, soprannominato, non a caso, “il figlio del vento”.

1988 Olympics Ben JohnsonUno contro l’altro: la classe operaia e il predestinato; il povero e il ricco; Paperino e Gastone. Per correre 100 metri. Ed entrare per sempre, insieme, a braccetto, nella storia. Uniti. Da una parte c’era Ben, che si era dovuto allenare oltre ogni limite per riuscire a portare il suo fisico, non proprio longilineo, a combattere contro l’uomo dalle lunghe leve, che pareva essere stato scelto da madre natura per correre più veloce del vento. Dall’altra parte, appunto, un efebo Carl, talmente ossessionato dalla sua bellezza da non curarsi nemmeno degli avversari di turno. Carl era veloce. Ben voleva diventare veloce. La sfida era tutto quello che ci si poteva aspettare da un vero duello rusticano, anche se lo sport ci racconta anche di una fetta di sana rivalità, quella rivalità che si trasforma a volte in complicità, in amicizia, come nel caso di Luz Long e Jesse Owens.

Ma torniamo a Johnson e lo spettacolo che fu a dir poco elettrizzante. Durò, in tutto, 9 secondi e 79 centesimi. Ma fu qualcosa che si impresse a vita nelle rètine e nelle memorie di chi ebbe la fortuna di assistere a quella finale olimpica. Quella che segue, potrebbe esserne la telecronaca in diretta. “Alla partenza, Ben Johnson mette in mostra il suo più bello “start”, in pieno “rana style”: due piedi a spingere contemporaneamente al via, uno scoppio esplosivo. Tant’è che Ben, dopo pochi metri, è già “un uomo solo al comando”, lontano da tutti, anche (soprattutto) dall’odiato rivale: Carl. Ben è in sesta corsia, e sta bruciando la terra sotto i suoi piedi, tanto è veloce. Carl è in terza corsia, è indietro, va fuori corsia, e sta realizzando, forse per la prima volta, che questa finale olimpica la perderà. A 7 secondi e mezzo di gara, Ben è avanti a tutti di una lunghezza. Sta correndo un’altra gara. La sua rabbia, la sua voglia, la sua determinazione stanno portando “il ranocchio” a trasformarsi nel “principe della velocità”.

E quando l’arrivo si avvicina, Ben è così sicuro di vincere che alza addirittura il braccio al cielo. La mano al cielo. Il dito al cielo. È lui il vincitore dei 100 metri. È lui il vincitore della finale olimpica. È lui il detentore del nuovo record mondiale. E lui il dominatore della velocità. È lui l’uomo jet. È lui “l’uomo più veloce del mondo”. Poi le cronache racconteranno di Ben Johnson squalificato per doping, di un titolo cancellato e della cancellazione successiva del suo record mondiale. Ma questa è un’altra storia, come direbbe Lucarelli. Dal traguardo in poi ci sono gli esami, le cartelle cliniche, i test; c’è chi fa gli esami, come fa gli esami e quando fa gli esami; ci sono gli avvocati, le federazioni, gli Stati di appartenenza: c’è tutto questo e molto altro a fare la differenza, dopo il traguardo.

Dalla linea dell’arrivo in poi, la verità si fa nebbiosa, incerta, dubbia. Penalizzato Ben. E gli altri? Basta guardare attentamente le cartelle cliniche di Lewis stesso ma anche di Linford Christie e Calvin Smith (anche loro in gara) per accorgersi che Ben non fu il solo a “barare” in quella finale. Quindi, baro per baro, quello che si ricorda è il dito alzato verso il cielo di Ben Johnson sul filo di lana. A parità di “dopaggio”, Ben Johnson quei 100 metri li ha vinti. Non c’è stato qualcun altro che li ha corsi per lui. E non ci sono controprove che gli altri fossero più puliti di lui. Come sempre, si è scelto di punire “qualcuno”. Tornano in mente Maradona e Pantani, due nomi non a caso. Le storie di doping aprono scenari incomprensibili, tristi e ìmpari. Forse, a così tanti anni di distanza, è meglio ricordare solo la favola di Ben Johnson, l’uomo che sconfisse il “figlio del vento” con la forza della sua volontà.

Condividi